Sandro Ricaldone

NEBULA

“Avvicinarsi alla pittura, oggi, significa anzi-tutto liberarla dei suoi attributi «tradizionali» che sono i significati simbolici, autobiografici, letterari e metaforici. Significa reinventarla, oggettivarla, allontanarla da sé, servirsene per proporre allo spettatore-fruitore una traccia per una ricerca comune e non per offrirgli una verità che l’autore non può avere perché non esiste”. Queste frasi di Claudio Verna, scritte nel pieno della stagione della Nuova Pittura, sembrano quanto mai stimolanti in una stagione in cui la pratica pittorica, dopo i perigliosi fasti della Transavanguardia e la ventata neoespressionista, sembra inclinare verso un rapporto di dipendenza nei confronti dell’immagine mediatica, “incapace – per riprendere le parole di Georges Didi-Huberman – del minimo contropotere, della minima insurrezione, della minima controgloria”. La pittura è forse una delle pratiche, dei “saperi-lucciola” evocati dal filosofo francese, la cui persistenza appare problematica. Ma la sua luminosità, per quanto tenue e intermittente, non accenna ad estinguersi.

Una forma di resistenza, l’affermazione, forse minima ma tutt’altro che inconsistente, della pittura come possibilità di un nuovo sviluppo, di un’idea che “si identifica – è ancora Verna a dirlo – esclusivamente nel suo realizzarsi, infine nell’opera”, si dà nella ricerca di Michele Allegretti, che procede attraverso la riduzione dei mezzi per mettere a fuoco un territorio specifico, che sceglie di contrarre il registro cromatico a tonalità di nero e bianco, di nero e rosso (o blu), per circoscrivere attraverso il contrasto, la sovrapposizione, o – all’estremo – la cancellatura, uno spazio al tempo stesso delimitato e indefinito.

Uno spazio non statico come nelle geometrie del concretismo degli anni successivi al secondo conflitto mondiale, né rigidamente ingabbiato come nelle strutture minimaliste degli anni ’60/’70, bensì mobile, agitato da un moto molecolare che pervade l’equilibrio dell’insieme, animandolo di un lavorio interno che traduce in un termini avvertibili la dilatazione cosmica, cui il titolo della mostra, “Nebula” allude.

“Questo lavoro – annota l’artista – è partito con una intenzionale riduzione degli strumenti comunicativi, per creare un linguaggio che fosse il più possibile basico e quindi più esteso in termini di comprensione; volevo trovare uno strumento che operasse soprattutto ad un livello pre-linguistico, rinunciando a tutte le forme di comunicazione pittorica come la semantica, la seduzione del colore, le forme riconoscibili…

I quadri esposti presentano tutti una sorta di disturbo o cecità della visione, come se fossero visti attraverso una rétina non sana, con dei buchi, come se fossero zone d’ombra o bruciature della visione. Si interrompe il contratto sancito dalla visione e dal pittore, nel senso linguistico attraverso una macchia-copertura che ha il sapore di cancellatura…”

Al tempo stesso, però – proprio attraverso la sovrapposizione delle stesure, l’obliterazione dello strato originario – lo spazio pittorico acquisisce una profondità il cui limite si cela allo sguardo. Scardinato il paradigma della visione, “oscurando l’occhio”, la cancellatura “lo affina a vedere in trasparenza” (Hillman) il moto dinamico della luce. Così la fisicità della materia pittorica si dilata in spazio e lo spazio sembra acquisire quel tratto multidimensionale che Barnett Newman identificava nel concentrarsi, all’interno dell’opera, “di tutti gli orizzonti, non soltanto di quello che ci si staglia di fronte”.

Sandro Ricaldone